Un pallido sole era appena sorto quella mattina, quando un soldato bussò
alla porta dell’Angelo. Non avrebbe mai disturbato il suo sonno, se non
fosse stato certo di portargli una scoperta davvero eccezionale. Udita
la novità, l’Angelo si vestì in men che non si dica e si affrettò verso i
cancelli, gli occhi brucianti di trepidazione.
Era il 19 maggio 1944, ad Auschwitz-Birkenau, e Josef Mengele stava per
incontrare la più grande famiglia di nani di cui si avesse notizia.
Gli Ovitz erano originari di Rozavlea, un villaggio nel distretto di
Maramureș in Transilvania (Romania). Il loro patriarca era il rabbi
itinerante Shimson Eizik Ovitz, affetto da pseudoacondroplasia,
una forma di nanismo; nell’arco di due matrimoni egli aveva avuto dieci
figli, di cui sette affetti dalla sua stessa malattia genetica. Cinque
di loro erano femmine, e due maschi.
Il nanismo impediva i lavori manuali e faticosi: come risolvere il
paradosso di una famiglia così numerosa in cui la forza lavoro era però
quasi inesistente? Gli Ovitz decisero di rimanere il più uniti
possibile, e si dedicarono all’unica attività che avrebbe garantito una
vita decorosa a tutti loro: lo spettacolo.
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