lunedì 21 gennaio 2019

“Meglio morta che separata”, così Lia Pipitone fu giustiziata dal padre mafioso

Rosalia Pipitone, detta Lia, morì crivellata di colpi il 23 settembre del 1983 a Palermo, all’età di venticinque anni. Unica colpa della ragazza, figlia del boss dell’Acquasanta e uomo di Totò Riina, Antonino Pipitone, era quella di essersi separata dal marito. Fu proprio suo padre a ordinarne l’omicidio: “Meglio morta che separata”.

La sera del 23 settembre 1983 i telegiornali locali aprono con la notizia di una cruenta rapina a Palermo. Due malviventi col volto coperto hanno fatto irruzione in una sanitaria in via Papa Sergio, si sono fatti consegnare il bottino e poi, prima di dileguarsi nel nulla, hanno sparato a una giovane donna. "Mi ha riconosciuto" ha gridato uno prima di crivellare di colpi la povera ragazza. La vittima si chiama Rosalia Pipitone, ha 25 anni  e non è una donna qualsiasi. È la figlia di Nino Pipitone, boss del quartiere Arenella e uomo di Totò Riina, che proprio in quell'anno ha fatto uccidere decine di nemici.

Il delitto
Dopo una morte del genere, nella Palermo dei Corleonesi dove la vita vale meno di una sigaretta, ci si aspetta una reazione spietata contro i due balordi che hanno ucciso Lia e invece, contrariamente a ogni previsione, non succede niente. Nessun parossismo vendicativo, nessuna strage, nessun segnale. Anzi. Lia viene seppellita in fretta e in silenzio mentre la sua famiglia viene flagellata da un altro lutto. Si tratta di Simone Di Trapani, lontano cugino di Rosalia e negli ultimi tempi della separazione dal marito, suo amico e confidente. Il povero Simone muore lanciandosi dal quarto piano, il giorno seguente alla rapina in via Papa Sergio, lasciando un biglietto: "Mi uccido per amore".

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